VINCENZO MANNINO

Maestro - dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo.
E. De Amicis.


Lo abbiamo chiamato così. Per decenni. Con questa invocazione breve ed altera, filiale, rispettosa. Tre sillabe minute, in un unico nome di luce. Da seguire per sempre, noi allievi, come tanti figli di Giona o Zebedèo, lungo le strade di questo nostro mondo.
Nè ora, dopo i giorni seguiti al suo addio, ci viene meno lo stesso bisogno alle labbra: la stessa parola, che riaffiori d'improvviso in un sussurro e già ci divenga memoria o preghiera.
Così, oggi, di là da ogni ricordo o di un qual nostro moto di rimpianto, alcune cose, fra quelle che gli sono appartenute, possono intanto ricondurci a lui e al senso stesso di quanto egli ha compiuto.
Gli spartiti, innanzitutto. Siamo andati a cercarli nel suo studio, una sera di Ottobre. La radio, per caso, mandava un Adagio di Mozart, il K 488, con Pollini. Fuori pioveva leggero, d'un'aria grigia e fugace che andava carezzando i piani alti delle case. Anche la musica sapeva di nebbia, al nudarsi di quel solo, mesto, struggente, che ci seguiva ora tra il nugolo dei libri, velati appena da un pulviscolo sottile, da un odore vago di Breitkof und Hartel.
Alle pareti i ritratti, le dediche, le foto color seppia: quasi a custodire, in quel limbo silente di stanza, antiche mete di gloria, rare gemme d'istanti vissuti. Weingartner, Casella, Rubinstein, Zecchi ed altri ancora, a suggellare dialoghi e intese felici, sotto a un uguale cielo notturno, tra rivoli di stelle fuggite dal Gran Carro .
Quei libri, dicevamo. Percorsi da noi, lentamente, ad uno ad uno, pur di scorgere ogni volta una traccia di matita o un graffito lieve che fosse giunto diritto dal suo cuore. Esili trame, queste, di un disegno senza fine, reliquie di un pensiero leggiadro, costante, dal rigore classico e severo ma anche fragile, al contempo, ed incline ai crudeli abbandoni dei poeti.
La musica, intanto, effusa tra i riverberi di luce e d'ombra degli appliques, seguitava il suo quieto racconto mozartiano. Era il Jeunehomme della Haskil, stavolta, avvolto nel suo canto di cristallo, a insinuarsi dolce sopra gli scaffali, in un calmo diluvio di perle ed arpeggi, tra quegli stuoli di pagine vive, ricolme di segni, colori, respiri.
D'un tratto, da una logora custodia della EMI con la scritta "La Voce del Padrone", sistemata a caso all'interno di un cassetto, ci apparve allora qualcosa di inusuale, inaspettato. Era un disco. Un 78 giri, in ceralacca, vecchio chissà quanto, dalla scritta ormai sbiadita, di cui a stento riuscimmo a leggerne, infine, il nome e la data: VINCENZO MANNINO, 1932.
Se ne stava lì, il Maestro. In quell'involucro inerte. Tra quei magri solchi di pece indurita, impressi d'un silenzio scarno ed immane, d'un oblio quasi irredimibile; ma vivi. Vivi, finalmente. A ridarci, dal lì a poco in un istante, come nel più magico fra tutti i sortilegi, la pura verità, anche se ancor breve, riguardo alla suprema arte di un pianista: il suono scaturito dai suoi gesti, dal duro lavorìo delle sue mani; il nitore adamantino scolpito in ogni nota, in ogni frase, così da ergersi, come una nuda sfinge marmorea, innanzi al nostro muto e commosso stupore.
Un dono postumo e inatteso, il suo. Il senso e il fine d'una vita vissuta, giuntoci per lieta rivalsa della sorte, sottratto dallo scrigno della sua riservatezza, dal suo inesausto pudore di artista.

A. S. , Palermo, Giugno 2003